Ecco a voi l'imbarazzante perché assai
radioattivo fardello italiano. È racchiuso in 70mila metri cubi di rifiuti
nucleari che presto diventeranno 90mila. Li conserviamo "provvisoriamente".
Perché non sappiamo ancora oggi dove metterli, come trattarli, come riciclarli
con minor danno e possibilmente con il maggiore vantaggio. Quelli più vecchi e
stagionati, ma più pericolosi, sono in parte parcheggiati in qualche
laboratorio estero per neutralizzarli o riprocessarli.
Ma il grosso è piazzato in 23 siti sparsi
in 11 regioni. Semplicemente perché quei rifiuti sono nati lì. Sonnecchiano
nelle cinque ex centrali nucleari formalmente dismesse dai tempi del referendum
antiatomo del 1987 ma lungi dall'essere correttamente smontate e pienamente
neutralizzate. Ma ce ne sono nei centri di ricerca che hanno a che fare con
l'atomo, come l'Enea o l'Istituto di fisica nucleare.
E completano la minuziosa e seminascosta invasione del territorio altri 300 luoghi più "moderni" dove gli avanzi radioattivi nascono e prosperano ancora oggi. Già, perché le scorie made in Italy, chiuse le centrali atomiche da quasi un trentennio, continuano a vagare nelle industrie (pare, ad esempio, che nulla possa sostituire una radiografia atomica per verificare la bontà delle saldature più critiche) oltre che nei centri di manovra e di ricerca della nostra medicina. In volumi, solo per citare appunto le "new entry", tutt'altro che trascurabili: per ora 500 metri cubi l'anno, destinati progressivamente a raddoppiare lungo i prossimi 40 anni. Doppiato il 2050 il fardello complessivo avrà appunto superato, si stima, i 90mila metri cubi.
Insomma, mentre la vecchia eredità delle nostre centrali dismesse si dimena tra i ritardi e tra pluridecennali polemiche. Più che comprensibili, visto che lo smantellamento delle vecchie centrali ante-1987 non ha raggiunto un quarto del suo percorso, mentre il fardello continua a crescere.
Se ne prende, se non altro, coscienza.
Tant'è che in attesa di risolvere il problema è appena venuto alla luce, se non
altro per chiarire bene i contorni del problema e spronare possibilmente la
soluzione, un "osservatorio" che si presenta di buona caratura: la
Fondazione per lo sviluppo sostenibile guidata da Edo Ronchi, Legambiente, Wwf.
Con la collaborazione attiva (si promette) della stessa Sogin.
Principale e cruciale domanda: ma il deposito nazionale promesso ormai da decenni per concentrare e gestire nel migliore dei modi tutto ciò? La risposta è persino puerile, se teniamo conto della declinazione (o meglio, dell'esasperazione) italiana del cosiddetto effetto Nimby che sta per "not in my back yard, non nel mio cortile", ovvero del conclamato andazzo di rifiutare qualunque infrastruttura sul territorio che sia più grande di uno scaldabagno. Figuriamoci che benevolenza può generare una nutrita serie di bidoni di scorie radioattive.